giovedì 7 luglio 2011

Cultura al servizio dell’uomo o uomo al servizio della “cultura”?

di Maria Teresa Rosini

A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia è ancora di estrema attualità il discorso sul rapporto tra gli italiani e la “cultura”. Quel “fare gli italiani”, che D’Azeglio suggeriva non immaginando che fosse un’ operazione così lunga e laboriosa, aveva molto a che vedere coll’idea che potesse essere la cultura, la conoscenza, a fare da collante ad un popolo che unito non era stato mai.

Oggi la “questione culturale” italiana è ancora tema di discussione dopo aver attraversato un secolo denso di conflitti che, appunto sul piano della cultura, oltre che delle ideologie, si sono dispiegati e poi miseramente aggrovigliati perdendo la consistenza di ogni riferimento.

E di “decadenza culturale” contemporanea quindi si parla ancora: italiani ignoranti e supponenti, pigri lettori, cittadini poco informati, teledipendenti e sostanzialmente indifferenti alle sorti della comunità nazionale oltreché ancora pericolosamente inclini all’individualismo e ad una concezione disinvolta del principo di legalità. Si parla ma, oltre alle parole, sono le statistiche e i sondaggi che, al di là di impercettibili oscillazioni, non lasciano spazio a illusioni.

Tutto questo in una fase in cui le nuove tecnologie della comunicazione, veicoli straordinari e impensabili fino a non molto tempo fa di conoscenza e informazione, si sono inserite nella vita degli italiani che le utilizzano però su un vuoto di riferimenti identitari dovuto ad una sostanziale inconsapevolezza del percorso che la conoscenza, la cultura occidentale e quella nazionale, hanno compiuto nei secoli che hanno preceduto l’attuale.

La nostra scuola pubblica infatti, deputata istituzionalmente a questo compito ma mai fatta oggetto di adeguato sostegno nei processi di innovazione, non è ancora riuscita a liberarsi completamente, dopo oltre un secolo, dai suoi “peccati originali” (pedanteria, nozionismo e rigidità), eternando, nei suoi versanti peggiori, la funzione borghese di selezione classista per cui era nata: articolare il percorso di formazione secondo modalità di conoscenza affastellate disorganicamente su retorica, tradizione e programmi sempre in affanno alla rincorsa della contemporaneità (le eccezioni, per fortuna, ci sono sempre), ha condotto gli italiani all’elaborazione di una concezione del “sapere”, (quello non immediatamente spendibile per lavoro o per fini pratici), come operazione noiosa, inutile e del tutto al di fuori della vita reale.

E, fatto ben più grave, una buona parte dei più giovani sembra oggi condividere se non razionalmente, almeno emotivamente, tale idea.

Tutto quello che di vitale, progettuale, creativo, contestualizzabile e inclusivo c’è nell’ idea di “sapere” è stato accuratamente trascurato per incuria e ignoranza o per deliberata scelta potremmo sospettare, considerate le sempre scarse risorse economiche sulle quali la scuola ha potuto contare, condizionando pesantemente l’attuazione coerente di ogni elaborazione, slancio, progresso e innovazione del processo di insegnamento-apprendimento, che pure ci sono stati.

Eppure il nostro paese vanta e ha vantato élite culturali di prim’ordine che hanno camminato però su binari sempre più divaricati rispetto a quelli di una popolazione priva degli strumenti più elementari ai fini di una elaborazione della realtà in cui erano immersi. Il legame, fondamentale per il progresso di un popolo, tra istruzione pubblica e condivisione del sapere da un lato, e classe intellettuale ed elaborazione della cultura dall’altro, nel nostro paese non si è mai davvero instaurato.

In uno snobismo reciproco e simmetrico gli intellettuali, o una parte di essi, hanno rifiutato e rifiutano l’idea che la “casalinga di Voghera”, o l’impiegato di Canicattì (ma anche la maestra di Legnago) possano mai voler leggere e poter comprendere (al di fuori dei loro pregressi obblighi scolastici) Dante, Leopardi, Pasolini o Eco; a loro volta costoro sono portati allo scherno o ad una svogliata e superiore condiscendenza (“la cultura non si mangia”) verso chi rischia di apparire ai loro occhi come assolutamente incapace di “sporcarsi le mani” con realtà molto più prosaiche e “plebee” di un libro. Pregiudizi reciproci facilmente smascherabili, ma radicati in un comune sentire, in un senso di appartenenza che riveste di diffidenza paure reciproche, reciproci fraintendimenti.

Questa divaricazione tende a riprodursi all’infinito nonostante la molteplicità delle iniziative che nel campo della cultura vengono continuamente messe in atto.

Un progetto culturale autentico, che si tratti di musica, arti figurative, poesia, letteratura, storia, filosofia o scienza richiede il lavoro intellettuale di molte persone qualificate, capacità organizzative, risorse finanziarie…ma quanta parte di tutto questo riesce ad incidere sulle vite concrete di milioni di italiani, chi e quanti sono coloro che di questo lavoro prezioso riescono a giovarsi in termini di maggiore conoscenza, maggiore consapevolezza, affinamento ed elevazione della propria mente e del proprio mondo emotivo?

La risposta è scontata: una gran parte delle persone resta al di fuori di questa virtuosa circolazione di conoscenza, saperi, sensibilità, riflessione sulla condizione umana che è ed è stata sempre lasciata alle scelte, alla iniziativa dei singoli individui.

Ma è proprio questa parte della nazione, la cui dimensione non può suscitare indifferenza, che lasciata ai margini della vita culturale, è in grado però di “spostare”, in una molteplicità di occasioni e situazioni, vari “aghi della bilancia” in una direzione o nell’altra.

Dato che un prodotto culturale dovrebbe portare sempre con sé, se è frutto di ricerca autentica e autentica comunicazione, un connotato di comprensione ed emancipazione per chi ne fruisce, è questa dimenticata porzione di pubblico, irretita da pregiudizi, prigioniera di barriere invisibili o assorbita da talk e reality show spesso demenziali e circuita da un “potere” che la vuole folla manovrabile e impotente, che occorrerebbe contribuire a coinvolgere.

Si registra invece una tendenza per la quale una parte non trascurabile degli eventi e delle manifestazioni culturali che vengono progettate e attuate, sembra rispondere, al di là del valore dei contenuti che esprime, più alle esigenze autocelebrative e agli autocompiacimenti di una certa classe intellettuale o politica in cerca di consensi, che ai bisogni di conoscenza e comprensione della gran parte dei loro fruitori, assorbendo risorse spesso in misura inversamente proporzionale alle ricadute.

La crescita culturale non solo di singoli individui ma dell’intera comunità nazionale, a cui si richiamano spesso le retoriche dichiarazioni di intenti dei politici, richiederebbe invece, per non restare mero esercizio di pensiero, un ripensamento complessivo e l’elaborazione di nuove modalità di coinvolgimento nella circolazione del sapere e della conoscenza.

E coloro che affermano di volervi concorrere dovrebbero con coraggio contribuire ad abbattere pregiudizi e reciproche diffidenze, a spalancare porte aristocraticamente sbarrate, ad assumere la responsabilità di privilegiare progetti dedicati all’inclusione di un sempre più consistente numero di fruitori di cultura e conoscenza, di informazione e consapevolezza della realtà.

Si avverte insomma la necessità di una nuova concezione della cultura: non più oggetto di “mistiche” manifestazioni di una classe rigorosamente selezionata, nonché esigua, di “sacerdoti”, piuttosto “mensa” aperta ai bisogni, spesso anche inconsapevoli, di persone in carne ed ossa che nella complessità del mondo contemporaneo hanno urgente bisogno di elaborare strumenti di lettura e stimoli alla riflessione all’interno di una dimensione gratuita e comunitaria della conoscenza.

San Benedetto del Tronto 3 luglio 2011 pubblicato su Marche Cultura:

http://cultura.dellemarche.it/001687_cultura-al-servizio-delluomo-o-uomo-al-servizio-della-cultura/

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