sabato 14 settembre 2013

Il romanzo tra realtà e invenzione letteraria : intervista a Paolo Di Paolo autore di Mandami tanta vita



Paolo Di Paolo appartiene a quella categoria di scrittori dei quali riescono ad entusiasmarci non solo le opere ma tutto il loro essere persona: l’argomentare che cattura e mantiene l’attenzione, la capacità comunicativa, l’umiltà nel voler condividere idee e riflessioni, l’ascolto, la passione e il profondo radicamento a ciò che si è e a ciò che si fa. Tutto ciò che insomma rende reale e priva di qualunque orpello narcisistico la comunicazione tra scrittore e lettori, che fa in modo che possano incontrarsi davvero. E trovare tutto questo in uno scrittore così giovane riempie di entusiasmo.
Parliamo allora con lui del romanzo, non solo di quello che Di Paolo ha scritto, ma del “romanzo” come forma di espressione complessa, dei vari modi in cui l’autore si coniuga  con la materia concreta del suo scrivere, del rapporto tra finzione e realtà, del perché alcune storie rischiano di sembrarci improbabili o disturbanti lasciandoci, alla fine, indifferenti,  altre finiscono per travolgerci e riuscendo nel difficilissimo compito di non lasciarci più gli stessi dopo la loro lettura.
  1. Mi sembra che il tuo romanzo su Gobetti si possa inserire in un filone della narrativa contemporanea che costruisce “storie” prendendo l’avvio da persone reali, del passato o della cronaca del presente.  Rielaborandone le vicende pubbliche documentate e facendosene in qualche modo “attraversare”, lo scrittore ne esplora la dimensione più emotiva e privata e usa la scrittura per comunicarla. Nel suo sorprendente saggio “Fame di realtà”, David Shields, riferendosi soprattutto alla letteratura anglossassone,  parla del rapporto tra finzione e realtà nel romanzo e afferma la presenza di segnali (in scrittori come Sebald e Naipaul) di “un ritorno postmodernista alle radici del romanzo in quanto forma essenzialmente meticcia, in cui il materiale “autentico” viene ordinato, immaginato, modellato come “invenzione letteraria”.  Ti chiedo se sei d’accordo e cosa ne pensi anche in relazione alle letterature contemporanee di paesi diversi?

Sono stato influenzato molto dal lavoro di scrittori non solo italiani che, negli ultimi anni, hanno mescolato "vissuto" autentico e invenzione romanzesca. Sebald, certo (si nota sempre più il segno che ha lasciato leggendo libri appunto ibridi, peregrinazioni tra saggio e romanzo, racconti "sulle tracce"), ma anche – per quel che mi riguarda – Uwe Timm (penso a "L'amico e lo straniero" in particolare, ma anche a "Come mio fratello"), Jean Echenoz ("Ravel", "Lampi") o autori italiani come Trevi ("Senza verso", "Qualcosa di scritto") e Sebaste ("H.P. L'ultimo autista di Lady Diana"). In tutti questi casi, il tema dell'autenticità del racconto, di un racconto in genere – anche quando non esplicito – è centrale. Ed è centrale per me, lo è stato fin dalle prime cose che ho scritto: uno dei primi, e più autobiografici, libri si chiamava "Come un'isola" (2006): cercavo di orientarmi, a posteriori, nella vita di una mia insegnante di liceo morta prematuramente. Ciò che ne restava era l'immagine troppo parziale di lei appunto dietro una cattedra. E tutto il resto? Fra documenti e fotografie ho scoperto un'altra vita, un'altra "D." - così per tutto il libro la nomino non nominandola. Ma un'esistenza, come diceva Tabucchi, non è in ordine alfabetico, è fatta di briciole e il problema, appunto, è "raccoglierle dopo". Con tutto il rischio di fraintendimenti e di errori che questo gesto comporta. Maneggio con imbarazzo e difficoltà l'invenzione pura, e lo riconosco come un limite: forse proprio l'ansia di allontanarmi dall'autentico mi ha tenuto nei pressi di una scrittura intesa anche come archiviazione della memoria (la mia e l'altrui). 

  1. Che relazione c’è nel tuo romanzo tra il lavoro di documentazione su Gobetti, che credo sia stato molto meticoloso, e la tua “libertà” di riempire i “buchi” del suo privato con la tua scrittura, le tue emozioni e sensazioni, la tua visione retrospettiva di un tempo e un contesto così lontani? Hai  mai avuto la sensazione di una tua forzatura, o di aver oltrepassato un confine nel raccontare la sua dimensione umana privata?

La sensazione di una forzatura l'ho avuta a ogni pagina. È come violare quel "no trespassing" che si legge in "Quarto potere" di Welles: il confine del privato, e in questo caso della verità storica di un privato. Tra le ipotesi iniziali, c'era anche quella di un saggio narrativo, ma poi mi sono chiesto se non rischiasse di essere solo l'ennesima voce di una già ampia bibliografia su Gobetti. Volevo invece che la sua storia – la storia di Piero, prima che di Gobetti – arrivasse ai lettori di un romanzo. Dovevo quindi passare per la narrazione di un vissuto emotivo, provare a ricostruirlo, a dedurlo, a scavare nei documenti. Qualcuno mi ha rimproverato che, più di un romanzo di idee, questo è appunto un romanzo di sentimenti. Può darsi che sia un difetto, ma le mie intenzioni portavano lì. 

  1. Ti sei mai chiesto cosa penserebbe Gobetti del tuo romanzo?

                Non riesco a pensarci. 

4.      Dopo decenni di sostanziale assenza nel nostro paese di intellettuali “militanti”, nel senso di voci della cultura che denunciano e tentano di spiegare e far comprendere il presente con il genere di passione civile che connotava il lavoro di Gobetti, c’è più nostalgia o rinuncia nei confronti di figure così umanamente e culturalmente autorevoli nella società attuale? E’ forse la complessità del mondo presente e la “babele” di voci che si sovrappongono e si confondono nei discorsi pubblici, a rendere difficoltosa oggi la presenza e l’emergere di queste figure? Oppure queste figure esistono ma la loro voce si disperde nel caos di tanti discorsi autoreferenziali di chiunque pretende di sentirsi portatore di verità?

Prima di tutto c'è una questione di acustica. È più difficile sentire nettamente alcune voci, perché si sono appunto moltiplicate quelle che hanno accesso a un uditorio pubblico. Si sono moltiplicate e confuse. Gobetti, come tutti gli intellettuali del Novecento, non parlava a molti; parlava comunque a pochi – a quelle che si chiamavano élites – ma l'effetto del suo agire era più visibile, più netto, probabilmente più incisivo. Il  paesaggio è completamente mutato: nella confusione prodotta dai media, dai social network – dove ogni opinione vale, o sembra valere, un'altra – è più difficile distinguere e distinguersi. Soprattutto, il rischio è che emergano – a sfavore di quelle più profonde e autorevoli – quelle più chiassose, violente (ai limiti del plagio collettivo), superficiali. 

5.      Credo che la caratteristica principale dell’impegno di Gobetti sia l’assoluta
autenticità e gratuità del suo lavoro, la capacità di impegnarsi per ciò in cui si crede con completo disinteresse personale. Oggi invece ci si impegna in vista di carriere, di opportunità, di interessi personali. Importa meno ciò in cui si crede (o non si “crede” semplicemente a niente) rispetto a ciò che ci si propone di raggiungere in termini pratico-materiali?  Rispetto a questo ritieni che la stagione dei movimenti e dell’impegno tra la seconda metà degli anni 60 e gli anni 70 abbia avuto le caratteristiche dell’autenticità e della assoluta gratuità dell’impegno che connotarono la vita di Gobetti?

Non è facile dare un giudizio. Non ho vissuto quella stagione, e mi attengo al racconto dei testimoni e degli storici. Mi sembra senz'altro evidente che tanto slancio, tanto "idealismo", dopo quella stagione, non si siano più visti. È iniziata poi una pioggia di disincanto, un tempo in cui la battaglia delle idee ha risentito molto di derive populiste, ciniche, di grettezza, di pigrizia mentale. Detto questo, è importante non generalizzare: ho avuto modo di incrociare in giro per l'Italia moltissime persone impegnate e appassionate. 


6.      In un’epoca di sostanziale disimpegno dei giovani nei confronti della politica, quanto la vicenda di Gobetti che racconti può contribuire a smuovere la riserva inutilizzata di energie positive di cui sono certamente portatori? Forse ciò che manca è un obiettivo concretamente definibile e percepibile, una “prospettiva” sul futuro?

La frase di Gobetti "restare politici nel tramonto della politica" mi sembra un monito importante anche per il nostro presente. Io stesso appartengo alla generazione che, molto più delle precedenti, ha faticato a immaginare il futuro, a non sentirlo ostile. Abbiamo molte attenuanti ma anche diverse responsabilità. La vicenda di Piero Gobetti ci chiede di rispondere a una domanda molto precisa: quanta energia siamo disposti a spendere, eventualmente a sprecare, per non essere passivi nel tempo di cui siamo ospiti? E se questo tempo è ingrato (come forse, in parte, lo è ogni epoca) come si può e si deve contribuire, per non essere complici del peggio o indifferenti?

di Rosini Maria Teresa
 

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