domenica 23 ottobre 2011

Caccia da cane

Sono un cane. Lo so, perché le voci mi chiamano così: le voci dei piedi che sollevano la saracinesca del garage dove sto.
Le teste sono troppo in alto: lassù non voglio arrivarci con gli occhi.
I miei occhi stanno giù, in basso, vicino al naso.
Sono un cane perché mi chiamano così, ma io lo so chi sono.
Sono un naso. E dentro mi entrano tutti gli odori di questo garage: polvere, gomma, vernice, ferro, molto ferro.
Quando la saracinesca si alza, mi alzo anch’io e cammino vicino vicino ai piedi delle voci.
Sono piedi di gomma, come quella del garage, ma poi s’impregnano di terra e d’erba. Un odore forte, bello, che mi stordisce.
Si cammina per ore ed, io, naso, m’ubriaco dei mille suoni che sollevano gli odori.
Gli odori delle formiche lucide e nere, delle lucertole che guizzano con gli occhi mobili su di me, degli scoiattoli che s’alzano sopra le mie orecchie e aggrediscono un albero, e scompaiono tra le sue mille braccia, e mi sembra che, forse, non li ho visti.
Poi le voci mi dicono: “cane, vai!” e corro, corro, corro verso un odore.
Un odore che s’alza tra tutti. Un odore speciale.
E’ forte e dolce, come il mio, quando dormo e m’acciambello nel pelo. E’ un odore di carne, di carne bagnata dal sudore e dalla pioggia, dalla terra umida e dalle foglie marce.
Mi piace. Mi piace tanto. Vorrei prenderlo, ma non so cos’è.
Un altro cane, forse.
No, non è un cane. E’ diverso. E’ più del bosco questo. E’ più di questo posto. Di questo posto verde e scuro. Ecco! C’è del fango dentro quest’odore, come un impasto, come un fiume che scorre, come di acqua torbida che inciampa tra i sassi.
E’ davanti a me.
non ha piedi. Ha piccole unghie che sfiorano il terreno. Sopra, è grosso, massiccio, tondo come un enorme sasso di peli.
Respira, grugnisce. Si ferma, si volta, verso di me. E’ esausto. Gli occhi piccoli, piccoli e feroci.
Non mi guardano, lo so che non mi guardano perché è troppo stanco.
Ora sono vicinissimo. Il suo odore mi prende, mi prende tutto. E’ tutto il mondo.
I suoi occhi piccoli e feroci si chiudono.
Il grande sasso di peli china quella sua specie di testa dove poco prima le pupille ansimavano nel vuoto.
Gli sono sopra. Ora il suo odore strofina il mio pelo, ma non mi basta.
Apro la bocca, voglio mangiarlo quell’odore. Voglio che s’impasti tra le gengive molli. Voglio che i miei denti lo strappino.
Voglio portarlo via da quel sasso di peli, da quella testa dagli occhi suini.
Lo sparo.
Tutto si ferma.
Anch’io mi fermo. Sopra di lui.
Ora, il cinghiale (così lo chiamano le voci) è fra i piedi di gomma.
Le voci ridono intorno alla sua carne immersa nel sangue.
Il suo odore non c’è più.
Sono sfinito. Guardo il bosco, mi abbasso di nuovo, vicino più vicino che posso alla fresca terra verde che mi entra nel naso come acqua pulita.
Mi sembra di lavarmi, di lasciarmi lontano quella puzza di sangue, che inonda quel corpo, quei peli, quegli occhi…
Lo trascinano come un sacco. E’ davanti a me. Lo vedo in mezzo ai piedi delle voci.
Ora le voci ridono, sono allegre, scherzano. Parlano di mangiare, di fare cose con la sua carne che è tanta. Ce n’è per tutti.
Arriviamo a una specie di casa in lamiera.
Dentro c’è un odore di polvere, gomma, vernice, ferro, molto ferro. Come nel mio garage.
Ma non mi lasciano entrare.
Sono fuori, l’hanno appeso a un palo basso.
Adesso escono con una grande pentola piena d’acqua bollente. Gliela tirano a secchiate per fargli ammorbidire la pelle.
Poi raschiano le setole con certe lame grosse e grigie.
Una delle voci prende un coltello e spacca il cinghiale con un taglio netto, dal sedere fino alla testa.
Comincia, allora, una strana euforia.
Le voci sembrano saltare e la carne la aprono, la legano, la riempiono di odori di erbe, la legano, la cuociono.
Io m’addormento in quel calore, in quell’odore.
Quando mi sveglio è già notte.
Le voci sono ancora dentro a ridere e a bere e mi raggiungono un pò lontane e sbiadite.
Mi guardo le unghie e non penso a niente.
Poi, all’improvviso mi accorgo che c’è una chiarìa strana nel cielo.
Cresce, cresce, come un grandissimo lampione che qualcuno ha caricato a dismisura.
E’ la luna. Solo la luna. Immensa, gigante, completamente rotonda. Intorno c’è, ora, un silenzio che non finisce mai.
Che m’importa che in cielo c’è la luna?
C’è sempre la luna.
Ora la sto guardando forte forte, ma so che è lei che mi guarda fortissimo.
Abbasso lo sguardo. Appoggio la testa tra le zampe. Sento che i miei peli s’induriscono. Mi danno fastidio, come un prurito, come un peso irresistibile.
Mi sento che la luna sta premendo sulla schiena come una mano calda che mi accarezza e mi spinge giù.
Vorrei rimanere così per sempre.
Vorrei rimanere ad essere terra, ad annusare il suo folto odore notturno, lasciarmi lontano il sangue, le voci.
Gli uomini.

CACCIA DA CANE     

di Valeria Tocchetti

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