mercoledì 18 maggio 2011

IL Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa


Proposta di lettura di Francesco Giovannelli

Giuseppe Tomasi di Lampedusa
(Palermo, 23 dicembre 1896 – Roma, 23 luglio 1957)

Il Gattopardo è il suo unico romanzo.








Nunc et in hora mortis nostrae. Amen. Queste sono le parole utilizzate da Giuseppe Tomasi di Lampedusa per l’inizio del romanzo il Gattopardo e con le quali celebra la fine di un regno, il Regno Borbonico, in cui “tutto rientrava nell’ordine, nel disordine consueto”.
Ambientato nella Sicilia del 1860, nei giorni in cui si decidevano le sorti del nuovo stato italiano, il romanzo narra le vicende di una famiglia aristocratica siciliana che ha come simbolo del casato proprio un Gattopardo.
Il suo capofamiglia, personaggio intorno al quale si snocciola gran parte del romanzo è Don Fabrizio. Un “mezzo siciliano” le cui grandi dimensioni ed il suo aspetto germanico lo rendono un personaggio fuori luogo nella Sicilia del tempo. E non solo per l’aspetto fisico. Don Fabrizio è un uomo tutto di un pezzo, un uomo che ha la fierezza di un felino (appunto un Gattopardo), che vive gli eventi storici ed i cambiamenti sociali in cui è coinvolta la sua Sicilia in maniera quasi rassegnata e con un certo distacco. Consapevole di aver raggiunto un età avanzata, il principe di Salina si fa trasportare da pensieri che sfuggono al mondo circostante degli amici e della famiglia. Accosta riflessioni inintelligibili agli altri personaggi del romanzo. Specie le riflessioni sulla morte, che più volte si ripresentano nel romanzo dall’inizio (Nunc et in hora mortis nostrae) alla fine (Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida).
Alla morte è addirittura dedicato un intero capitolo (il settimo), in cui viene narrato l’ultimo saluto di Don Fabrizio che vede piano piano uscire dal proprio corpo il fluido della vita per andare incontro ad una morte che si configura poeticamente nel romanzo soprattutto come dissoluzione, rovina, fluire corrosivo e indifferente del tempo, che investe uomini, oggetti e classi sociali.
Riflessioni che inesorabilmente conducono il Principe al rifugio in sé stesso e all’osservazione del cielo e degli astri, sua enorme passione.
Nessuno riesce a comprenderlo a pieno. Sua moglie Stelluccia, sua figlia Concetta, Padre Pirrone (parroco di casa Salina), Calogero Sedara, simbolo della nuova società borghese di Donnafugata. Nessuno è uguale a lui, sono tutti appartenenti ad una generazione diversa ed incomprensibile per Don Fabrizio, uomo che vive il suo tormento crescente consapevole di appartenere “ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due”. Persino il suo amico e compagno di caccia, Ciccio Tumeo sfugge dalle ammirazioni di Don Fabrizio con i suoi comportamenti da “snob”.
L’unico che riesce ad attirare la sua ammirazione e che ne riesce ad influenzare in parte le sue idee è il nipote Tancredi. Un giovane irrequieto e amante delle donne che senza indugio si aggrega all’esercito piemontese perché da “buon siciliano”, e quindi contrario ad ogni cambiamento, intuisce che “ se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. D’altronde solo il nipote adottato è l’unico personaggio che intuisce la natura tormentata e l’irrequieto agitarsi dell’animo dello “ziòne” ed il suo “corteggiamento” alla morte. Il solo in cui l’uomo-gattopardo possa in qualche modo vedersi riflesso, mentre il suo sguardo assiste impotente al crollo delle istituzioni e dei costumi sociali, alla fine di un’epoca.
Ma nel susseguirsi degli eventi di Don Fabrizio e della sua famiglia riesce pian piano a prendere forma un’altra protagonista del romanzo: la Sicilia.
Terra magnifica, quanto crudele e “dannata”. Terra che si prepara ad un nuovo cambiamento. Un cambiamento che però non porterà a nulla di nuovo. E’ il destino della Sicilia. Un destino a cui questa terra non può fuggire. Il tutto descritto nelle pagine del Gattopardo in maniera ironica e beffarda (vedi il discorso tra Don Fabrizio e il piemontese Chevalley). Come ironica e beffarda è stata la natura nei confronti della stessa Sicilia. Una terra che può vantare la bellezza della baia di Taormina ma che “a poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo”. Una terra posizionata nel cuore del Mediterraneo ma in quanto posizione strategica obiettivo delle mire espansionistiche dei diversi popoli da duemila cinquecento anni. Una terra che può godere per gran parte dell’anno di bellissime giornate di sole ma al contempo è vittima di aridità. Quindi una terra senza vie di mezzo. Senza razionalità. Una terra che, insieme alle dominazioni che si sono succedute nel tempo, hanno pian piano ha svuotato l’animo dei siciliani i quali oramai condannano non tanto il “fare bene o il fare male” ma bensì il semplicemente “fare”.
D’altronde questo popolo condannato a sudare 3 volte tanto rispetto agli altri italiani, che per ogni goccia d’acqua procuratasi deve versare una goccia di sudore e che ha dovuto sborsare denari ai differenti padroni che si sono succeduti nel tempo in cambio di bellissimi monumenti privi di anima, è un popolo diventato “vecchio”, privo di qualsiasi entusiasmo per qualsiasi tipo di cambiamento. Ed anche ora che si presenta l’opportunità di cambiare, di liberarsi di una monarchia oramai divenuta insopportabile e di partecipare alla creazione del nuovo Stato Italiano si tirerà indietro assecondando un cambiamento ma solo nella speranza che tutto rimanga immutato.

Discorso tra Don Fabrizio e Don Ciccio sul voto del referendum per l’annessione della Sicilia al nuovo Regno d’Italia

“E voi Don Ciccio come avete votato il giorno Ventuno?”
Il pover’uomo sussultò. Preso alla sprovvista in un momento nel quale si trovava fuori del recinto di siepi precauzionali nel quale si chiudeva di solito come ogni suo compaesano, esitava, non sapendo cosa rispondere.
Il principe scambiò per timore quel che era soltanto sorpresa e si irritò. “Insomma di chi avete paura? Qui non ci siamo che noi, il vento e i cani”.
La lista dei testimoni rassicuranti non era a dir vero felice; il vento è chiacchierone per definizione, il principe era per metà siciliano. Di assoluta fiducia non c’erano che i ani e soltanto in quanto sprovvisti di linguaggio articolato.

Discorso tra Don Fabrizio e il piemontese Chevalley che ha proposto al principe di Salina di candidarsi a diventare parlamentare del nuovo Regno d’Italia.

Stia a sentirmi Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono”.
“Ma allora, principe, perché non accettare?”
“Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spigherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi ad una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto “adesione” non “partecipazione”. In questi ultimi sei mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento, adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il là; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso”.
Adeso Chevalley era turbato. “Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato”.
“L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s’impipa di tutti regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi o, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto”.
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S.Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali:e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rifiutarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.”
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: “Ma non le sembra di esagerare un po’, principe?” Io stesso ho conosciuto a Torino dei siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi sono sembrati tutt’altro che dei dormiglioni”.
Il Prinicipe si seccò:”Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; le non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa continua tensione di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori s’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo”.
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Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: “Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare’. Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi contro degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti un’idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustità, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are coming to teach us good manners risposi ‘but won’t succeed, because we are gods’.
‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la sempre ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli di differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali suntuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perchè avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
“Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.
“E’ tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di uomo civile”.

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